Lotta Europea

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martedì 19 marzo 2013

La vita ai tempi dei black-out

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A Gaza la rete elettrica riceve la metà dei megawatt necessari (167 a fronte di un fabbisogno di 300/350) e la luce manca in media per 8 ore al giorno. I più fortunati hanno generatori a benzina, ma anche la benzina finisce e allora ci si adatta con un adattatore attaccato alla batteria della macchina; i meno fortunati si accontentano di una candela, attenti a non dimenticarla accesa perché la casa non bruci come già successo un paio di volte negli ultimi mesi. A Gaza il maggior fornitore di energia elettrica è l'israeliana Israeli Electric Company (120 megawatt, il 71,9%) perché la Gaza Power Plant (GPP), l'unica centrale elettrica dei Territori Occupati, produce solo 30 megawatt (18%). Questa è figlia degli accordi di Oslo e dell'investimento di un gruppo di privati arabi ed americani, prima su tutti la multinazionale libanese Consolidated Contractors Company (CCC), leader nel settore edilizio, che, dopo aver speculato sulla ricostruzione del Kuwait dopo la prima guerra del Golfo e dopo aver costruito oleodotti nello Yemen, fonda la Palestinian Electric Company (PEC), compagnia che possiede al 99% la Gaza Power Generating Company (CPGC), società di gestione della centrale di Gaza. Sia detto per inciso, al momento della sua fondazione le azioni della PEC erano per il 33% di proprietà della CCC, per il 33% della Enron, sostituita, dopo il noto fallimento del 2002, dalla Morganti. L'interessamento per l'elettricità di Gaza nasce da un contratto capestro ventennale stipulato nel 2004 con l'Autorità palestinese che, indipendentemente da quanto realmente prodotto dalla centrale, si è impegnata a pagare ogni mese 2,5 milioni di dollari per l'acquisto del carburante necessario. D'altronde la Gaza Power Plant non è mai riuscita a produrre quanto pattuito, vuoi perché nel 2006 l'aviazione israeliana ha distrutto tre trasformatori su sei, vuoi perché Israele dal 2007 ha dimezzato le importazioni di petrolio: ciò nonostante ogni mese l'Autorità Nazionale Palestinese ha rispettato il suo impegno e pagato quanto dovuto. Considerato l'investimento iniziale di 150 milioni di dollari per la costruzione della centrale, considerati i 240 milioni ricevuti dall'ANP dal 2004 ad oggi e considerato il prezzo dell'elettricità prodotta (tra le 4 e le 7 volte più cara di quella importata da Israele o dall'Egitto), un vero affare per gli investitori privati, a tutto scapito delle casse statali e della qualità di vita del popolo palestinese. Vista la chiusura dei rubinetti israeliani, sono l’Unione Europea e, unilateralmente, alcuni paesi membri e la Svizzera che dal 2006 hanno preso in carico la totale fornitura del gasolio per la centrale con una spesa calcolata fino ad oggi di oltre 300 milioni di euro, versati nelle casse della Dor Alon 1988 ltd, compagnia petrolifera israeliana che agisce nei Territori Occupati da monopolista, e con la quale l’Anp era già sotto contratto. Un contratto strano, che nessuno ha mai letto e che permette allo stato Israele di incassare l'1% della spesa per i "costi di struttura": l'1% di 300 milioni sono 3 milioni di euro transitati da Bruxelles a Tel Aviv. Una situazione paradossale perché a meno di 20 miglia dalla costa, dunque nello spazio di competenza economica dell'ANP sulla base degli accordi di Oslo, vi sono giacimenti di gas naturale con riserve per 15 anni (le licenze di sfruttamento sono al 60% della British Gas, al 30% della CCC e al 10% del fondo sovrano palestinese Palestinian Investiment Fund), ma Israele non ha ancora dato la sua autorizzazione alle operazioni di estrazione e distribuzione del gas, che, tra l'altro, comporterebbe l'afflusso nelle casse dell'ANP del 22% dei profitti dalla vendita. Nel frattempo, per il profitto di pochi, le case e gli ospedali di Gaza restano al buio.

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