Lotta Europea

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mercoledì 3 agosto 2011

Riletture: "Storia della mia gente"

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I giornali sono tornati a parlare di globalizzazione e lo hanno fatto grazie a Edoardo Nesi, vincitore del Premio Strega con il suo "Storia della mia gente". Non è un saggio , ma la memoria personale di un imprenditore costretto a chiudere, nel 2004, l'impresa tessile di famiglia, attiva dagli anni Venti. Ed è con i suoi occhi di protagonista e soprattutto vittima del mercato che sono letti e descritti i mutamenti economici in atto.

Bersaglio principale dei suoi strali sono gli economisti e i giornalisti alla Giavazzi che nei loro articoli sulle colonne dei maggiori quotidiani sostenevano "l'infinità bontà della globalizzazione" e sprezzavano "l'incapacità di grandissima parte dell'industria italiana di adattarsi alle nuove regole di mercato imposte da quella che [loro consideravano] la grande panacea dell'apertura mondiale degli scambi commerciali". Nonostante le loro ricette a buon mercato (più o meno riassumibili nell'ordine categorico di licenziare gli operai ed assumere i laureati in matematica), e nonostante nessuno lo voglia ammettere le loro profezie non si sono avverate. Perché la storia non è andata come dicevano loro: secondo le favole ottimistiche spacciate per verità, "ci avremmo fatto un sacco di soldi, tutti noi italiani, [...] e se si volevano accelerare le cose bastava sbarcare subito in Cina e aprirvi fabbriche, sia per produrre a un costo molto più basso i nostri prodotti miracolosi e benedetti del Made in Italy, sia per prepararsi a venderli laggiù". Ma "i cinesi non corsero a comprare il Made in Italy, ma a produrlo".

Insieme agli economisti, finiscono sul banco "i camerieri dei banchieri" (la definizione è di Ezra Pound), i politici, "che d'economia si sono occupati solo per amministrare ogni tanto, a seconda di chi vincesse le elezioni, condoni tombali o tosature radicali, e intanto vergavano in gran silenzio le centinaia di firme in calce ai trattati che avrebbero scotennato l'industria manifatturiera italiana".

Il risultato è un sistema industriale distorto, in cui le aziende tessili italiane si sono consegnate "alle grandi aziende dell'abbigliamento mondiale così adorate dai giornalisti economici; [...] quelle titaniche aziende globali che si acquattano nei loro quartier generali nuovi e splendenti creati dai loro servi più fedeli, gli architetti di grido: monumenti diacci e sterili fatti d'acciaio e cemento e vetro che riflettono il cielo e le nuvole, dove lavorano solo dirigenti e impiegati perché la produzione dei capi avviene in un'altra parte del mondo, in fabbriche del tutto diverse [...] e da persone del tutto diverse, che non solo non arrivano mai a comparire sulle pagine di pubblicità, ma non hanno nemmeno i soldi per comprarsi una copia delle riviste su cui compaiono le réclame dei loro generosi datori di lavoro".

Mentre in Italia, e in particolare nel distretto tessile di Prato, è una landa deserta e abbandonata, da ultimo giorno del mondo, con le fabbriche chiuse, dove intere famiglie di cinesi abitano e lavorano nello sporco e nel degrado più totali. E il futuro un'inevitabile esplosione dei rapporti sociali fra le diverse etnie, la stessa che la Francia ha già vissuto e che l'Inghilterra sta vivendo in questi giorni.

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